C’era una volta una bambina
C’è qualcosa che stride nel terribile, ennesimo, omicidio di una donna uccisa dall’ex fidanzato. Non si tratta, però, della sola efferatezza del gesto: Martina Carbonaro - questo il nome della giovane vittima assassinata qualche giorno fa ad Afragola, in provincia di Napoli - sembrerebbe essere stata uccisa a colpi di pietra. E neppure, a risultare ostica alla comune comprensione di una vicenda tragica che non può essere compresa, l’ormai ordinaria banalità del movente: «Non accettavo che mi avesse lasciato». Si tratta invece di un qualcosa che appunto stride, ma che è appunto un’altra cosa. Che lì per lì non si riesce, o non si vuole cogliere, fino a quando l’insistenza della cronaca non ti obbliga a valutare l’età della persona morta – quattordici anni! – ponendola in relazione alla fotografia che della stessa ti viene offerta dai media e che a chiunque potrebbe appartenere, tranne che a una prima adolescente. Nulla di male, si riesce ancora a pensare, se non fosse per quella qualifica lessicale con cui, sempre la stampa, ti impone il diciannovenne assassino reo confesso: «L’ex fidanzato». Neppure il primo a quel che si legge. Quindi non è una donna che è morta ammazzata, bensì poco più di una bambina in atteggiamenti di adulta, che alle nove di sera è ancora fuori di casa, ma incapace di reggere – com’era ovvio che fosse – anche soltanto il peso di quella parola. “Fidanzato”. Un termine ormai fuorimoda, al punto da risultare già di per sé impegnativo, tanto più in una età per la quale dire che si ha la vita davanti non rende affatto l’idea. A quattordici anni, la vita, non è ancora neppure iniziata. A patto che qualcuno queste cose a chi è poco più di una bambina le riesca a spiegare. «Le aveva già dato una sberla», ha denunciato ai giornalisti che ne raccoglievano lo sfogo la signora Fiorenza, la madre della piccola, incapace a sua volta di comprendere che uno schiaffo dato e ricevuto a quella età è motivo più che sufficiente per impedire – voce del verbo impedire – il proseguimento di quella frequentazione. Una incapacità la cui natura appare evidente quando si apprende come normale che quella relazione, per così dire tossica «Era durata poco più di un anno». Come dire quando la vittima - bambina era ancora più bambina: a 13 anni appena. Come dire che il deserto nel quale viveva Martina non era in Darfur, bensì in una zona che è nel nostro Paese. Un deserto dove il dolore di una madre che perde ammazzata una figlia bambina non consente giudizi, ma pone domande. A cominciare dal senso di non saper più trovare altro luogo che un social dove quel dolore incessante poterlo postare. «Sei stata “importante” – scrive Fiorenza a Martina su Facebook - e lo sarai sempre». E, inconsapevole dell’enormità che questa frase contiene, insiste in un crescendo di involontario protagonismo spiegando alla figlia che d’ora in poi starà non insieme ai nonni, bensì «Ai miei genitori». C’è qualcosa che stride nell’omicidio di una bambina che voleva sembrare una donna, uccisa da un uomo che per età oggi equivale a un bambino. Stride, ma sfugge, almeno fino a quando non ci fermiamo a pensare.

Commenti
I giovani sono esuberanti, tormentati da una smania di crescere e di scoprire il mondo e sé stessi. Non diversi dai loro coetanei di cento anni fa, forse solo nella lunghezza delle gonne per le ragazze. Ma i ragazzi sono più in difficoltà perché è stato tolto il piedistallo di sicurezza che evitava loro di doversi mettere in discussione. Nel giro di pochi decenni hanno perso la supremazia garantita da millenni, il senso di responsabilità del capofamiglia e insieme la speranza nel futuro. Alle ragazze è stato promesso il diritto a una libertà fallace che non prevede la dignità e la misura. Ragazze e ragazzi generati e allevati da genitori che, vittime a loro volta, non sanno esprimere il proprio dolore se non pubblicamente attraverso i social.