Il lavoro rende liberi
Precisiamo subito che il giudice che ha ammesso al lavoro esterno al carcere Emanuele De Maria, il pluriomicida suicidatosi qualche giorno fa gettandosi dal duomo di Milano dopo aver ucciso una collega con cui pare avesse una relazione e tentato di ammazzarne un altro, molto probabilmente si è soltanto limitato ad applicare ciò che prevede la Legge. Nessuno scandalo, quindi: se l’assassino aveva scontato in regime detentivo almeno metà della pena prevista e si comportava come un detenuto modello, l’accesso a tale beneficio era un diritto cui poteva legittimamente ambire. Senza che per questo alcun magistrato di sorveglianza – non avendo appunto la sfera di cristallo e potendosi basare soltanto sui fatti – tale diritto lo potesse negare. Quello che invece indigna, in questa ennesima tragedia annunciata, è la malintesa forma di Diritto, ossia quello che deve rendere Giustizia, secondo cui il contrappeso penale di una persona ammazzata (se uomo, o donna è un sofisma), possa concretizzarsi in soli 14 anni di reclusione per il suo assassino. Una pena ridicola, che la Legge – e non chi si limita ad applicarla - rende ancora più grottesca, consentendo come nel caso di specie l’accesso del detenuto alle misure alternative al carcere, dopo soli sette anni. Fermo restando il fine rieducativo della pena, costruttivamente previsto dai Costituenti quale segno di ritrovata civiltà dopo la seconda guerra mondiale, va infatti rilevato che questo debba essere sì un diritto spettante a tutti i carcerati (compresi quelli sottoposti all’abominio dell’ergastolo cosiddetto “ostativo”), ma secondo tempi e modalità differenti a seconda del reato commesso. Che non possono e non devono essere “uguali per tutti”, perché è evidente che, se poste in relazione al livello di pericolosità sociale di un individuo, le caratteristiche di chi sta scontando una condanna anche pesante per peculato, sono assai diverse da quelle di chi sconta una pena definitiva per l’omicidio volontario, quando addirittura non premeditato, di un’altra persona. De Maria non era finito in cella per aver imbrattato i muri di una scuola: aveva ucciso una donna. E posto pure che si comportasse bene dentro e fuori le mura della galera e che parlasse cinque lingue non è possibile che – anche per una questione di rispetto dovuto da parte dello Stato alla donna uccisa e dei suoi familiari – la sua pena si potesse ridurre (legittimamente, secondo quanto previsto dalla Legge) a un lasso di tempo assurdamente breve, entro cui valutare il suo effettivo recupero. Che il lavoro renda liberi, purtroppo, è una verità assoluta, macchiata però in eterno dall’uso aberrante che di questa frase fu fatto dai nazisti nei loro campi di morte. Paradossalmente, però, si tratta di un’aberrazione resa propria e dimostrata anche da Emanuele De Maria il quale, nel corso di una intervista televisiva recente fattagli in qualità di detenuto “redento”, sosteneva di lavorare all’esterno con grande passione, proprio perché lavorando si sentiva «libero» e capace di conferire «un senso alla (sua) quotidianità». Il lavoro, concludeva l’assassino recidivo, «mi dà autostima». Purtroppo si è visto in che quantità. E soprattutto a cosa gli è servita.

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(da: Filosofia del cane, di Mark Rawlands)