Donald first!


 C’era una volta quello slogan “Prima l’America!”, che costituiva l’essenza di un pensiero confezionato ad arte per terrorizzare i cittadini degli States, minacciandoli di non poter più mantenere il proprio standard di vita, a meno che la politica americana virasse nei modi che sono oggi sotto gli occhi di tutti. Una paura reale, al punto da portare per due volte alla Casa Bianca con elezioni regolari e democratiche, un personaggio democraticamente dubbio come Donald Trump. Una tendenza a esaltare l’unicità degli Stati Uniti, in ogni caso, mai rinnegata e anzi sempre orgogliosamente esibita da tutti i 45 presidenti di stanza a Washington, attraverso quella che può essere considerata l’icona più nota del pianeta. Si tratta della bandiera a stelle e strisce che fa da sfondo a tutti i ritratti presidenziali presenti nel palazzo sede della stanza ovale. Che è sparita, per la prima volta nella storia, lasciando lo spazio a uno sfondo nero, che si fatica a pensare casuale.  Niente bandiera americana alle spalle di Donal Trump, quindi, nel secondo ritratto che intende lasciare ai posteri che visiteranno quei corridoi carichi di storia e di segreti (più o meno segreti), eseguito dal fotografo ufficiale Daniel Torok. Una fotografia dalla perfezione tecnica obiettivamente impressionante, studiata ad hoc fin nei minimi particolari. Un’immagine che deve parlare da sola, prima ancora di essere osservata. A cominciare dalla posa del tycoon, che subito ha colpito per essere stata realizzata, di fatto, sulla falsa riga della foto segnaletica scattata all’allora appena ex presidente Trump, costituitosi presso il carcere Fulton, ad Atlanta, in Georgia, accusato di reati in materia elettorale. Un’inezia, forse, questa rimozione ad altre latitudini, ma un azzardo che potrebbe invece costargli caro in un Paese dove il rispetto dei simboli è spesso oggetto di un vero e proprio culto. Rimuovere la bandiera americana da dietro le proprie spalle, infatti, costituisce un segnale inequivocabile – tanto più se emanato da un iconoclasta come Trump – di rottura delle regole. «Io guiderò gli americani – sembra voler ammonire con quel gesto i propri connazionali – perché l’America sono io». Un ulteriore strappo di egocentrica megalomania, che arriva dopo un’infinita serie di altri, tra cui la destabilizzante vestitura papale conclave durante, preceduta dal manifesto gigante che lo ritraeva a fianco a quello di Abramo Lincoln. Eppure, questa volta, con la bandiera ignorata Donald Trump potrebbe aver fatto un passo falso in grado di costargli assai caro, perché lede un valore che è sacro e caratteristico proprio del suo elettorato più forte. Quello orgoglioso di appartenere agli all american boys, con tanto di bandiera americana, appunto, alzata e ammainata ogni giorno nel giardino di casa. Un popolo di elettori che sicuramente si riconosce nei personaggi e nella filosofia che un gigante della cinematografia (ed ex amministratore pubblico repubblicano), come Clint Eastwood promuove sugli schermi di tutto il mondo, ottenendo rispetto trasversale incondizionato. Non sappiamo se Trump abbia visto Flags of our fathers, per esempio, ma in ogni caso dovrebbe rivederlo. In quel film, come in nessun altro, si dimostra come la retorica dei simboli – quando ben utilizzati strategicamente dalla macchina della propaganda – abbia una presa micidiale su chi è chiamato periodicamente a esprimere il proprio gradimento su tutto ciò che conta. Le bandiere dei nostri padri, infatti, al di là della eccezionale resa dei campi di battaglia in tutto l’orrore di cui sono portatori, descrive in maniera analitica come la celebre fotografia dei sei marines che issano artatamente la bandiera americana sulla collina appena conquistata di Iwo Jima, abbia finito di trascendere dall’obiettivo suo significato bellico, trasformando quella stoffa multicolore nel simbolo dell’orgoglio nazionale. Capace, apparendo su tutte le prime pagine dei media statunitensi all’indomani del 26 marzo 1946, quella immagine che non aveva bisogno di commenti, oltre che di ridare fiducia a un popolo ancora sotto lo shock inemendabile di Pearl Harbour, anche di far riconoscere in sé stesso l’immagine riflessa delle persone comuni, quando all’improvviso diventano eroi. Di sicuro Trump per gli americani – anche per quelli che lo hanno votato – spaccone com’è, difficilmente potrà essere accreditato come quel tipo di eroe. Se poi, seriamente, ha pensato di poterlo diventare applicando una variante al contrario della foto scattata durante quel tramonto in mezzo al Pacifico, allora l’attuale presidente degli Usa potrebbe davvero aver sbagliato i suoi conti. Più vicino ai personaggi delle pellicole di Samuel Fuller, che non del regista di “Gran Torino” – protagonista, guarda caso, un reduce dalla Corea - potrebbe persino scoprire che «In guerra non esistono eroi, ma sopravvissuti soltanto». 

 

 

Commenti

Enrico ha detto…
Politicanti e non politici.
Ricconi e cattivi gestori di capitali pubblici.
Affaristi per curare i propri interessi.
E noi dovremmo mangiarci le unghie per sopportare tali personaggi?
Non dobbiamo essere disposti a farlo e dobbiamo invece reagire con la protesta più bella: informarsi e informare!!!
Solo allora non dovremo subire e avremo adempiuto ad un dovere veramente etico.
Enrico
Nadia Mai ha detto…
Dubito che il patriottismo americano sia ancora una forza capace di opporsi a Trump. Già in campagna elettorale Donald aveva mostrato di non apprezzare (anzi li denigrava) i reduci delle varie guerre e gli elettori non hanno battuto ciglio. Adesso preferiscono assaltare il Campidoglio vestiti da vichinghi.
Forse l'unica speranza di indebolire Trump è la rottura con Musk.
Vedremo.

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