Chi non muore si risiede


Quando nel Regno Unito il Governo prende una decisione – qualsiasi decisone –  ricadente sulla quotidianità dei sudditi di Sua Maestà, il Primo Ministro – quale che sia – adotta una curiosa usanza del luogo, che qui da noi apparirebbe bizzarra: la comunica al Paese.  Così fu, per esempio, nel 1991 quando Margareth Thatcher, un pomeriggio neppure troppo piovoso si affacciò dall’appartamento numero 10 di Downing street e, senza frapporre parole superflue, disse che il servizio sanitario britannico – il prestigioso NHS – non esisteva più. Con epressioni diverse, senz’altro, ma dall’inequivocabile senso che l’impostazione pubblica della Sanità istituita da sir William Beveridge nel 1948, innovativa al punto di voler attestare “l’universalità dell’assistenza pubblica”, ossia intendendo i servizi sociali come diritto di tutti i cittadini, era finita per sempre. Fu subito chiaro a tutti, infatti, che la riforma voluta dalla Lady di ferro, non si poneva il problema della drasticità. Il primo passo fu quello di separare chi finanzia i servizi da chi invece li eroga, ossia quelle che da noi sono le Aziende sanitarie, dagli Ospedali. I quali, divenuti organismi autonomi, iniziarono fin da subito una competizione intesa a ottenere contratti dalle Aziende predette, in veste di acquirenti dei vari servizi. Il criterio sulla base del quale ottenere i finanziamenti, quindi, era basato sul risultato ottenuto grazie alla qualità e all’efficienza delle proposte. Il tutto (obiettivamente) con una conseguente maggiore autonomia di gestione delle risorse e pianificazione delle attività proposte. In Italia, invece, lo smantellamento del Servizio Sanitario NazionaleSSN - in favore di una privatizzazione della salute, che sta apparendo ormai evidente a chiunque,  è iniziato in maniera tipicamente più bizantina, ossia mai apertamente esplicitato, con un anno di ritardo rispetto alla perfida Albione, nel 1992, proseguito l’anno successivo e completato dalla riforma voluta dal ministro Rosy Bindi nel ‘99. Con i due Decreti iniziali, infatti, sono stati introdotti per la prima volta all’interno del sistema sanitario italiano, istituito a tutela di quel diritto alla salute che, unico caso tra i diritti previsti, la Costituzione definisce “Fondamentale”, i concetti di aziendalizzazione, separazione tra committenti e fornitori, regionalizzazione. Un concetto, quest’ultimo, che in un malinteso consenso ad adattare le esigenze sanitarie alla specifica realtà locale, è stato subito interpretato come la facoltà per gli amministratori regionali protempore, di fare - incontrollati – quello (per usare un eufemismo) che si vuole. Quanto alla aziendalizzazione, a pagarne le spese sono ovviamente i pazienti – in termini aziendali subito riconvertiti in “clienti” – che grazie a una contrazione dei tempi previsti (per esempio) per le visite e gli esami strumentali – hanno visto dilatarsi (sempre per esempio) i tempi di attesa per ottenere una prestazione qualsiasi. Una prassi non capitata per caso, che non risparmia neppure i casi più gravi: quando per ottenere una tac, alle volte, servono più di sei mesi. Inaspettatamente, in Piemonte, dal Governo della Regione hanno fatto sapere di una sensibile diminuzione dei tempi nelle cosiddette liste d’attesa, peraltro confermata anche a livello nazionale. A dire il vero non hanno mentito. Omettendo, però, che il guadagno di tempo nella velocità ospedaliera a sveltire le code non è frutto di nuovo personale, o dell’acquisto di altre apparecchiature. Più semplicemente, chi ha i mezzi libera il posto accedendo alle strutture private. E chi no – oltre due milioni e mezzo la cifra stimata in Italia – rinuncia invece alle cure. Morendo, assai spesso, senza neppure troppo clamore.

Commenti

Enrico.b ha detto…
Quando il pubblico, inteso come bene pubblico, servizio pubblico, gestione pubblica, diventa "azienda", entra in gioco la parolina "profitto" venendo molto spesso a mancare il concetto, ben più importante, di "investimento".
Solo con investimenti mirati, oculati e ben gestiti, lo Stato dimostra di mettete al primo posto i cittadini, mentre privilegiando il profitto, tipo gestione aziendale, lo Stato dimostra di svendersi volutamente ai privati per i quali gli investimenti sono solo ed esclusivamente gli incrementi dei propri conti bancari.
E se le persone rinunciano a curarsi, beh semplicemente diventa una loro scelta, un problema loro, lo Stato si defila in barba alla Costituzione e a "quel" diritto Fondamentale.
Cosa deve ancora succedere?
Enrico.b
Anonimo ha detto…
La mia impressione è che l'Italia si sia data un Servizio Sanitario Nazionale ( dovremmo dire piuttosto Regionale) al di là delle sue capacità economiche e organizzative di gestirlo.
Anni fa il ricovero per una cataratta era di una settimana. Vero che le tecnologie non erano perfezionate come ora, ma il motivo vero era che, più erano i giorni di degenza, più l'ospedale otteneva come rimborso.
A forza di essere accessibile a tutti per qualunque minimo malessere (vedi la frequenza con cui certuni si rivolgono al medico di base e la disinvoltura con cui alcuni medici prescrivono esami e cure)), il SSN si è impoverito e deteriorato. Non è più in grado di retribuire adeguatamente medici e paramedici che rinunciano ad esercitare per lo stress.
Ho conosciuto la sanità in Australia. Non so come fosse l'accesso agli ospedali (non ne ho avuto bisogno per fortuna), ma qualsiasi visita, da quella dal medico di base a quelle specialistiche, si svolgeva in ambulatori privati. Si era coperti da assicurazioni statali o private dal costo irrisorio. Ogni prestazione veniva rimborsata entro una settimana sino ad un massimo dell'80%. Questo sistema garantiva contro l'abuso di accesso alle prestazioni, richiedeva necessariamente il rilascio di fattura da presentare per il rimborso e, al contempo, calmierava le tariffe (la visita da un luminare costava all'epoca un quarto del prezzo medio in Italia).
Non so se potrebbe funzionare in Italia. Il rimborso non arriverebbe certamente entro una settimana e qualche furbetto troverebbe il modo di approfittare del sistema.
Però sarebbe il caso di pensarci.
Nadia Mai

massimo p ha detto…
L’aziendalizzazione è passata sotto la bandiera della razionalizzazione dello spreco, del contenimento dei costi. Un bilancio non avrebbe permesso sprechi e l’invenzione dei LEA avrebbe garantito l’accesso alle cure. Purtroppo le due cose non stanno insieme, ad oggi. Le prestazioni che vanno garantite sono inevitabilmente un costo che non produce, come lo è produrre salute in generale e i costi salgono inevitabilmente, come per ogni altra cosa. Nemmeno un popolo attento avrebbe potuto opporsi alla riforma per come l’ha messa in atto la Lady di Ferro, ma noi abbiamo a nostro discapito la disattenzione dell’utenza e dei lavoratori, tutti certi dell’immutabilità delle cose e del valore di ciò che è “giusto”. L’unico costo che lo stato può davvero gestire è quello del personale e lo ha gestito, con tutti gli strumenti utili ad allontanare persone dal SSN. Per offrire un servizio serve che qualcuno lo eroghi ed oggi la qualità percepita da utenti e operatori sta in ciò che viene erogato fuori dal SSN, in un contesto che alla fine non riduce i costi, perché la borsa principale resta quella dello Stato. Come sempre, da decenni, lasciamo che le cose avvengano governandone solo una parte (e nemmeno sempre), poi, qualche santo provvederà.
MASSIMO TERRILE ha detto…
Maurizio ha posto il dito sulla piaga, e si sa che fa male (la piaga).Circa i costi del SSN, non bisognerebbe dimenticare quello dei farmaci, dove al fine di poter vendere medicinali 'successori', simili ai precedenti, per i quali viene propagandato dai produttori un 'plus' senza poi la corrispondente verifica a livello di farmacovigilanza, le industrie farmaceutiche uccidono migliaia di animali nei test preclinici, assai costosi e inutili, e mettono a rischio l salute dei 'volontari' nelle prove cliniche, scaricandone il costo sul SSN. Per contro, le molecole così dette 'generiche' (per le quali è scaduto il brevetto da oltre 30 anni) non vengono sperimentate dalle industrie per nuove applicazioni farmacologiche, in quanto non sarebbe possibile ri-brevettarne l'utilizzo. Quindi potrebbero sì essere prodotte liberamente, ma non certo 'vendute' gratuitamente. Peraltro, se si volesse dare un forte contributo alla riduzione della spesa del SSN, abbassando il costo dei farmaci, che sale inesorabilmente, dovrebbe essere lo stesso Stato a sperimentarle per nuove applicazioni sanitarie, calmierando così il mercato. E' noto che nei pochi test effettuati si è verificata tale possibilità. Se la salute è un diritto costituzionalmente definito 'fondamentale' non si vede inoltre per quale motivo non possa esistere un'industria statale che ricerchi e produca farmaci per nuove applicazioni sulla base di principi attivi i cui brevetti sono scaduti, visto che l'industria privata se ne guarda bene.
Maurizio Scordino ha detto…
Solo per ringraziare tutti gli amici e le amiche che seguono queste righe, prendendosi la briga di nobilitarle coi loro commenti sempre puntuali e, anche quando in disaccordo, sempre costruttivi (grazie Pier!). Oggi, poi, ci stiamo superando - in particolare e senza nulla togliere agli altri interventi - con gli ultimi due pesi "Massimi" intervenuti. Massimo P. per aver inquadrato assai meglio di me il contesto attuale di disfacimento del SSN, rendendo così il mio pezzo più completo e, soprattutto, scientifico. Infine Massimo Terrile, amico di una vita in senso letterale e fondatore del Movimento Antispecista. A lui il merito di essere riuscito a inserire, con rara maestria dialettica, il discorso terribile della sperimentazione animale dei farmaci, sulla quale sempre si sorvola quando si parla di questi temi. Massimo T. lo ha fatto non solo in maniera, ovviamente, competente, ma con la lucidità e il distacco indispensabili a una discussione civile e ragionata. Grazie a Enrico J.M.Z. e Nadia, invece, per il buon senso di cui fate dono ai lettori. Sono certo di aver dimenticato qualcuno, ma rimedierò. Grazie anche a loro.

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